La Lettura / Eugenio Barba e Lorenzo Gleijeses
PERFORMANCE COME COSTRUZIONE CONTEMPORANEA.
IL MODELLO COMPOSITIVO DELL’ESPERIENZA DI LORENZO GLEIJESES
Performer, ideatore, deus ex machina dei progetti nei quali è protagonista, Lorenzo Gleijeses ha inaugurato un itinerario personale nel contesto del ‘teatro di ricerca’, contrassegnato dal dialogo con figure e personalità teatrali apparentemente agli antipodi, nel segno di un’operatività trasversale, interamente nutrita dalla pluralità degli sguardi e dalla messa in atto di processi creativi sempre eterogenei, caratterizzati da una lunga e complessa gestazione (cfr. Di Giammarco, 2021). Il processo compositivo condotto da artista e compagni di viaggio dà luogo ad “una catena di azioni e reazioni, una sorta di ‘domino’ dai risultati imprevisti, presumibilmente ben più ricco della somma dei fattori che concorreranno a produrlo”, costituendo “la spina dorsale dell’opera” (Gleijeses, 2016-2017). È il caso di lavori come Il figlio di Gertrude (2006), SPAM (2013), Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa (2020), Corcovado (2020): operazioni artistiche, più che spettacoli, coltivate a partire da percorsi di ricerca condivisi con alcuni ‘maestri’ della scena contemporanea, come Julia Varley, Rafael Spregelburd, Eugenio Barba, Michele Di Stefano, Luigi De Angelis. Tutti artisti con i quali il peformer ha messo a fuoco un’idea di teatro – sia sul piano produttivo, sia su quello operativo – composta da materiali che migrano “da un incontro all’altro, sottoponendo all’artista successivo i risultati dell’incontro precedente, innescando così un meccanismo di trasformazione dove ogni traccia sarà evidente ma il risultato finale sovrasterà ogni individualità coinvolta” (Gleijeses, 2016).
Oltre a definire un percorso come attore di interpretazione nel contesto del teatro ufficiale ed istituzionale, l’itinerario artistico di Gleijeses s’inserisce parallelamente in quello che convenzionalmente definiamo ‘teatro contemporaneo’: un modello di costruzione teatrale la cui matrice organizzativa ed operativa trova fondamento storico – all’insegna di una tradizione del nuovo (Bartolucci, 2007) – in quell’idea di ‘scrittura scenica’, che – sul piano critico – rappresenta un principio fondativo per le esperienze di Nuovo Teatro e di ricerca sia linguistica, sia scenico-drammaturgica che si sono susseguite a partire dalla metà degli anni sessanta. Per meglio comprendere la portata di quanto evidenziato appare opportuno precisare che con la formula ‘scrittura scenica’ non si intende fare riferimento alla componente scenografica o esclusivamente figurativa del linguaggio teatrale, ma ad un vero e proprio codice di composizione complesso ed articolato attraverso il quale viene ‘scritto’, cioè composto dal punto di vista materiale, l’evento scenico-performativo. Si tratta quindi di una strategia operativa con la quale l’artista organizza la drammaturgia dello spettacolo. Drammaturgia, non riconducibile al solo dato testuale-letterario, ma composta dagli elementi specifici della scena: ‘corpo’, ‘suono’, ‘immagine’ e ‘azione’ (Bartolucci, 1968; Mango, 2003). Tali coefficienti linguistici sono termini costanti nell’esperienza più squisitamente legata alla ricerca teatrale operata da Gleijeses fin dai primi anni duemila.
Il ‘corpo’ è il dato pivotale all’interno dei processi di elaborazione teatrale condotti dall’artista. Partiture fisico-gestuali vengono costruite in maniera rigorosa all’insegna di un’articolata ricchezza espressiva. Prodotto dalla messa a punto puntuale della parte performativa, scandita da lunghe sessioni laboratoriali condivise con altre personalità artistiche, il lavoro sul corpo rappresenta il primo momento della creazione teatrale nell’esperienza di Gleijeses. Il movimento è infatti assunto tanto in qualità di elemento tecnico-linguistico specifico di una particolare esperienza di costruzione, quanto come strumento espressivo per imbastire narrazione. È questo un aspetto da sempre indagato dall’artista, soprattutto a partire dall’incontro con Julia Varley, avvenuto nel contesto di uno stage svoltosi nel 2002. Sul piano della formazione è un momento che per Gleijeses rappresenta l’approdo ad una nuova modalità di costruzione della partitura attorica:
Lei [la Varley] ha cambiato – ricorda – il mio approccio e il mio rapporto con il corpo: all’interno dell’Odin Teatret ha grande importanza il lavoro fisico. Sono sempre stato uno sportivo, ma non si trattava della stessa sensibilità di movimento. Con Julia ho iniziato ad avere una quotidianità nel lavoro fisico, fino al momento in cui ne ho sentito io stesso la necessità (Benzi, 2021).
Durante la fase di costruzione, l’esplorazione fisico-gestuale entra progressivamente in rapporto con gli altri piani della costruzione drammaturgico-spettacolare: il ‘suono’ e la condensazione in ‘immagine’.
Oltre a definire la messa a punto della recitazione dal punto di vista fonematico, andando così a sviluppare l’impianto interpretativo di matrice vocale (modulazione, disegno tonale, tessitura timbrica, amplificazione tecnologica), la dimensione sonora della perfomance si articola attraverso la costruzione di una partitura acustico-musicale dallo spiccato accento drammaturgico composta da montaggi di brani o inserti editi, mash up di voci off o campionamenti, creazioni originali composte da musicisti coinvolti già a partire dalle sessioni laboratoriali, interventi live di strumentisti che in scena intessono un dialogo con l’interprete dalla forte ricaduta narrativa.
Una volta sviluppato questo processo relazionale interamente organizzato sulle basi di una composizione unitaria ed organica, ‘corpo’ e ‘suono’ vengono contemporaneamente impiegati in qualità di elementi-coordinate attraverso le quali determinare e costruire in chiave espressiva lo spazio teatrale. Essenziale, scarno e minimale, il luogo scenico all’interno del quale si dispiegano le operazioni che vedono protagonista Gleijeses è definito dall’impiego di strisce e tubi a led, proiezioni cromatiche dai toni accesi, quadrati di luce, pannelli neutri sui quali vengono proiettate ombre o silhouette, pochi elementi scenografici praticabili. La polarizzazione delle tensioni prodotte dal rapporto tra gesto, suono e spazio genera una drammaturgia fisicizzata, materializzata in ‘immagini’.
Sintesi delle diverse e specifiche dinamiche operative alla base della strategia compositiva messa a punto da Gleijeses, l’‘immagine’ non è da considerarsi elemento riconducibile esclusivamente alle qualità figurative ed iconiche dell’elaborazione teatrale. Né tantomeno deve indurre a pensare ad una sua chirurgica e statica cristallizzazione in segno puramente visuale. Condensato in una sorta di coagulo visivo, grumo di tensioni drammaturgico-espressive, l’intero processo di creazione diventa impianto strutturale dell’opera, mirando alla composizione di una progressione narrativa. Il rapporto tra le diverse ‘immagini’ sintetizza infatti sia il livello espressivo dell’esperienza d’elaborazione, sia quello strutturale generando ‘azione’.
Nelle opere di Gleijeses il racconto si struttura e procede per epifanie visive, polarizzazioni sintetiche delle tensioni tra ‘corpo’, ‘suono’ e spazio scenico, all’interno delle quali il testo recitato, così come convenzionalmente inteso, non trova mai spazio. Questo non deve erroneamente indurre a pensare che nei lavori dell’artista sia assente una componente narrativa. Pur non rispondendo a logiche di progressione univoche e discorsive, l’‘azione’ scenica si fonda su motivi e temi dalla consistenza drammaturgica sia che si tratti di creazioni originali, sia che ci si trovi di fronte a montaggi testuali. Questi materiali, che entrano nel processo di elaborazione in una fase successiva a quella di una prima costruzione delle partiture fisico-gestuali e sonoro-vocali, vengono attraversati dal performer per essere innanzitutto metabolizzati – decontestualizzati dal disegno narrativo al quale originariamente appartengono – e successivamente, una volta formalizzati in dato spettacolare, restituiti e ridefiniti in ‘azione’, andando così ad incidere in maniera totalmente nuova sul piano della loro riformulazione di senso.
Oltre ad essere affidata a meccanismi di associazione tra gli elementi dispiegati che ricompongono ciclicamente il processo artistico davanti agli occhi degli spettatori, la dimensione del racconto nelle opere di Gleijeses si nutre delle suggestioni prodotte dalla lettura e dalla conoscenza di ‘classici’ teatrali, testi letterari o filosofici. È così che da una prospettiva espressiva e funzionale alla matrice compositiva incarnata dall’artista ritroviamo nella sua teatrografia consistenti riferimenti a: William Shakespeare, Heine Müller, Euripide, Samuel Beckett, Fernando Arrabal, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Franza Kafka, Gilles Deleuze, Edoardo Sanguineti, John Updike.
Alla luce di quanto introdotto, avendo come riferimento cardinale le coordinate ‘corpo’, ‘suono’, ‘immagine’ e ‘azione’, appare fondamentale ripercorrere alcune delle tappe spettacolari più caratterizzanti l’itinerario teatrale di Gleijeses, un percorso modellato sui coefficienti linguistici della ‘scrittura scenica’.
Il figlio di Gertrude è uno spettacolo del 2006 costruito sulla base di un lungo lavoro laboratoriale durato quasi quattro anni e condotto da Julia Varley, che ne firmerà anche la regia. Come precedentemente precisato, Gleijeses incontra l’attrice dell’Odin Teatret durante un seminario organizzato nel 2002, dopo un percorso di formazione che l’ha visto già ‘allievo’ di Yoshi Oida, Eimuntas Nekrosius, Nikolaj Karpov e soprattutto di Lindsay Kemp. Sotto la guida della Varley, l’artista affronta una ricerca espressiva e pre-espressiva con l’obiettivo di comporre una sorta di bagaglio esperienziale grazie al quale andare successivamente ad affrontare un processo di creazione finalizzato alla costruzione di uno spettacolo immaginato come un ‘solo’ performativo. Impostata sullo sviluppo di un lavoro fisico e vocale in grado di attrarre, incuriosire lo sguardo ancor prima che subentri una componente legata alla produzione di senso o ad una comunicazione di carattere narrativo, questa indagine porta progressivamente all’elaborazione di una partitura gestuale e sonoro-vocale in cui protagonista è il ‘corpo’ in qualità di strumento compositivo. È questa una fase contrassegnata dalla messa a punto di partiture fisiche in rapporto a contrappunti sonori, costituiti da diversi montaggi di brani che vanno da Carosone a Gegè Di Giacomo a Pino Daniele.
‘Corpo’ e ’suono’ sono elementi che vengono utilizzati come coordinate per definire lo spazio scenico, ideato come un’area composta in maniera essenziale e scarna, all’interno della quale si trovano pochi elementi scenografici: due secchi metallici, una struttura sferica ricoperta da una rete in ferro, dei cubi di lamine scintillanti, tutti oggetti utilizzati dal performer a supporto della sua recitazione. Il rapporto tra ‘corpo’, ‘suono’ e spazio genera una drammaturgia che, oltre a risultare condensata espressivamente in polarizzazioni epifaniche, inanella una serie di ‘immagini’ suggestive e metaforiche. Ne è un esempio un passaggio all’interno del quale il protagonista interpretato dall’attore ‘cavalca’ un elemento a forma cilindrica realizzato con una rete metallica a mo’ di razzo improvvisato: mezzo con il quale vorrebbe disperatamente raggiungere il padre morto (cfr. Taddeo, 2005).
La componente più specificamente e apertamente narrativa è affidata ad un montaggio di riferimenti testuali che aiutano lo spettatore ad individuare nel protagonista un rimando simulacrale al personaggio di Amleto, la cui aura drammatica è intessuta da un’intelaiatura testuale tratta da Amleto di William Shakespeare, Hamletmachine di Heiner Müller, Mal-d’-Amlè di Enzo Moscato, Mamma, Piccole tragedie minimali di Annibale Ruccello. Riferimenti rimodulati da un immaginario culturale che pesca a piene mani da Beckett, Carmelo Bene, Antonin Artaud, Julian Beck, Totò. A rendere ancora più articolato l’impianto drammaturgico è il ricorso a Una storia in Danimarca di John Updike. Il romanzo, che ribalta “la vicenda del principe di Danimarca”, qui “esposta dal punto di vista di Gertrude la madre” (Varley, 2006), viene utilizzato come elemento strutturale per fare da cornice all’‘azione’ narrativa prodotta dal lavoro su e con gli elementi ‘corpo’, ‘suono’ e ‘immagine’. Partito come spunto che raccontava la solitudine di un giovane in relazione alla famiglia e alla società, Il figlio di Gertrude – nutrito da un lavoro di costruzione performativa e drammaturgica – porta in scena la storia di un protagonista amletico in preda ad infiniti interrogativi e in dialogo con i fantasmi che riaffiorano dal suo passato (cfr. Varley, 2006).
Allo spettacolo del 2006 seguono L’esausto o il profondo azzurro (2008), Cerimonia (2011) e A Portrait of the Artist as a Young Man (2011): il primo ancora con il contributo della Varley e gli altri due con Gleijeses in qualità anche di regista. Con tutte le differenze del caso, si tratta di opere che confermano le qualità performative e autoriali dell’artista. Convinto della necessità di nutrire in maniera sempre nuova il processo di composizione teatrale, nel 2013 Gleijeses instaura un nuovo sodalizio creativo. Il ‘compagno di viaggio’ prescelto è il drammaturgo Rafael Spregelburd.
L’idea alla base di questa collaborazione è provare a confrontarsi con il dato testuale in qualità di elemento presente a monte della ricerca attorica. Lo spunto narrativo di partenza dell’operazione è il rapporto tra individuo e quotidiano, ridefinito nell’ottica delle dinamiche generate dalla rete e dal suo utilizzo. Al centro della vicenda immaginata dai due artisti vi è un personaggio protagonista colpito da una temporanea amnesia. Mario Monti, questo il suo nome, prova a ricostruire la sua identità partendo da alcune tracce lasciate nel pc, dando particolare rilievo alle mail. Proprio la decisione di rispondere ad un contatto ritrovato nella cartella di posta indesiderata genererà un racconto composto da equivoci e intrighi internazionali. Nasce così SPAM, spettacolo allestito nel giugno 2013 all’interno del Napoli Teatro Festival Italia.
Sul piano drammaturgico il testo è costruito da una serie di blocchi narrativi autonomi dal punto di vista strutturale. Ogni tassello testuale, funzionale a fare progressivamente luce sull’identità del protagonista, è pensato per essere posizionato in maniera sempre diversa all’interno dell’andamento narrativo riproposto in scena. Così congegnato, l’impianto del racconto pensato da Spregelburd e Gleijeses è organizzato per essere ricostruito ad ogni replica in una maniera sempre nuova, senza però rischiare di mutarne il contenuto. Oltre ad essere scandita in scena dall’utilizzo di palline numerate, estratte casualmente da un parallelepipedo girevole a manovella, questo meccanismo di ‘randomizzazione’ drammaturgica dell’‘azione’ ben sintetizza il tipo di esperienza iper-testuale che in maniera accidentale si compone di fronte all’utente durante la navigazione in Intenet, assimilando così i meccanismi stessi del web, qui trasformati in dispositivi narrativi (cfr. Casi, 2015).
Come nel caso di tutti i lavori di Gleijeses, lo spazio viene organizzato in maniera estremamente essenziale: tre file di tende bianche sono disposte sulla destra del palco. Pur essendo allestito su basi minimali, il dato spaziale viene impiegato per generare ricadute sul piano narrativo, in perfetta organicità con l’idea espressiva prodotta dalla costruzione dell’‘azione’. Il bombardamento di informazioni, dati, video, notizie provenienti dalla rete, e che s’intersecano sul piano del racconto individuale, viene infatti sintetizzato in ‘immagine’ in qualità di elemento dallo spiccato accento drammaturgico. Sulle tende presenti nello spazio vengono proiettate motion graphics provenienti dal web mescolate a materializzazioni di riferimenti e dati culturali visivi, presumibilmente appartenenti alla sfera personale del protagonista. Si tratta di immagini del Caravaggio, della Costa Smeralda, animazioni dal carattere divulgativo di antichi popoli della Mesopotamia.
All’interno delle dinamiche di composizione spettacolare, anche l’elemento ‘suono’ ricopre una funzione dal forte impatto drammaturgico. Sul lato sinistro della scena si trova una consolle con strumenti musicali, interfacce digitali per creare musica elettronica. Questi dispositivi vengono azionati e suonati live da Alessandro Olla, il quale realizza un’articolata partitura musicale composta da tappeti elettronici, phrase sintetici, manipolazioni di inserti composti da voci off e di estratti estrapolati dal testo di Spregelburd, parti pianistiche. Sviluppando un andamento musicale caratterizzato dalla costante alternanza tra piani e forti, oltre che dall’avvicendamento di ritmi sincopati con momenti più rarefatti, Olla mette a punto una partitura sonora in perfetta sintonia con quella recitativa. È questo un aspetto particolarmente interessante del processo creativo affrontato in SPAM. Intervenendo a valle dell’elaborazione teatrale, il ‘corpo’ attorico viene limitatamente impiegato da Gleijeses in qualità di strumento per costruire tanto la tessitura drammaturgica, quanto la parte. Questo elemento viene infatti inserito nel lavoro di composizione per le sue funzioni più spiccatamente sonoro-verbali, andando ad incidere maggiormente sul piano dell’interpretazione. La ricomposizione sempre nuova della struttura narrativa dell’‘azione’ – la cui architettura, come precisato in precedenza, è ridefinita sera dopo sera attraverso una vera e propria estrazione delle scene – viene tracciata dal performer modulando diversi registri interpretativi, ritmi e dinamiche vocali, intessendo così un dialogo con la partitura realizzata da Olla con l’obiettivo di “dare corpo e dinamicità ad un testo labirintico” (Distefano, 2013).
Dopo Discorso celeste e US (2014), lavori di Fanny & Alexander nei quali Gleijeses compare come performer dando vita a partiture coreografiche ispirate a diverse discipline sportive, l’artista si ritrova a Holstebro nel quartier generale dell’Odin Teatret. Con il sostegno di Julia Varley e di Eugenio Barba comincia a sviluppare un lavoro fisico-gestuale basato su una serie di movimenti essenziali precedentemente messi a punto con Michele Di Stefano, coreografo della formazione MK. I primi risvolti compositivi del processo innescato riportano al centro delle dinamiche di creazione teatrale il ‘corpo’. Gleijeses comincia infatti a lavorare ad Holstebro senza nessun tipo di suggestione drammaturgica. Il suo itinerario creativo è sorretto esclusivamente dall’elemento sonoro costituito dagli interventi di Mirto Baliani, musicista e light designer con il quale l’attore aveva già avuto modo di intessere un dialogo proficuo nei due spettacoli firmati da Fanny & Alexander. Cominciano così ad essere progressivamente messe a punto partiture fisico-gestuali elaborate in stretta correlazione espressiva con l’elemento ‘suono’ incentrate sul motivo strutturale della variazione sul tema.
I primi esiti del lavoro condotto vengono mostrati a Barba. Il regista trova i movimenti coreografici suggestivi, ma muti, perché inefficaci – dalla sua prospettiva – a suscitare reazione nello spettatore (cfr. Costantini, 2021). Al di là dell’incisività della proposta, il fondatore dell’Odin offre un personale spunto, che ricorderà qualche anno più tardi affermando: “Ebbi […] l’associazione di un essere umano che, al suolo, si dimenava come un insetto. Mi lasciai sfuggire questa mia prima associazione con lo scarafaggio di Franz Kafka. Lorenzo l’afferrò al volo e la sviluppò” (cit. in ibid.).
Da questo momento in avanti Gleijeses inaugura un lavoro di indagine mirato ad approfondire aspetti della biografia di Kafka e motivi legati alle sue opere, tra le quali ricoprono una rilevanza maggiore Lettera al padre e ovviamente La metamorfosi. L’obiettivo non è tanto quello di contestualizzare drammaturgicamente le partiture messe a punto attraverso lo strumento ‘corpo’, il quale non ricorre quasi per nulla alla recitazione verbale, quanto conferire una dimensione sia metaforica sia emotiva al personaggio che via via sta emergendo durante questa prima fase di elaborazione. Fase che si trasformerà in una sorta di lungo laboratorio permanente, protraendosi per circa cinque anni, durante i quali si alterneranno riprese, ulteriori scandagli, destrutturazioni e nuove ricomposizioni. È così che nasce e progressivamente si nutre il processo che porta all’allestimento di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa che vede alla regia lo stesso Gleijeses, la Varley e soprattutto Eugenio Barba, qui all’unica sua esperienza di direzione esterna al percorso con l’Odin.
Alla luce di quanto affermato precedentemente, in relazione alla necessità di intraprendere un percorso di ricerca di ampio respiro, scandito da lunghe e articolate dinamiche produttive, vale la pena soffermarsi ulteriormente su questo momento a cavallo tra il 2015 e il ’16. Parallelamente al lavoro su Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, Gleijeses, nell’arco dei mesi a seguire, riesce a coinvolgere una serie di personalità artistiche di diversa estrazione e a farle orbitare intorno a questo processo di sperimentazione costante. Nasce così 58° Parallelo Nord – nome ispirato al parallelo che passa per Holstebro, dove si trova la sede dell’Odin – una sorta di ‘cantiere teatrale permanente’ (cfr. Margiotta, 2021) all’interno delle quali dinamiche – oltre a Barba e alla Varley – si avvicendano, offrendo il proprio contributo creativo, Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK), Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Roberto Crea, Marco Mazzoni (coreografo e danzatore del gruppo Kinkaleri), Danio Manfredini e Zapruder Filmmakersgroup (collettivo di cineasti indipendenti). L’obiettivo dichiarato è quello di stimolare interventi creativi tra loro in dialogo portando ciascun artista coinvolto ad agire secondo le proprie logiche compositive, andando così ad incidere sulle dinamiche del processo e sulla sua formalizzazione in opera (cfr. Gleijeses, 2021).
Questa esperienza di attraversamento trasversale della creazione laboratoriale porta ben presto allo sviluppo di due distinti filoni di ricerca: uno dalla natura più squisitamente coreografica, sostenuto dal perfomer assieme a Luigi De Angelis e Michele Di Stefano, che porterà successivamente alla costruzione di Corcovado, e un altro segmento all’interno del quale verranno approfonditi i motivi emersi dal lavoro a Holstebro, frutto del dialogo con Barba e la Varley.
La ripresa del disegno progettuale relativo alla composizione che porterà all’allestimento di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa viene ulteriormente scandagliato nei mesi successivi alle sessioni organizzate in Danimarca. Gleijeses riparte infatti da quella strettissima e simbiotica correlazione tra ‘corpo’ e ‘suono’ che aveva caratterizzato le prime fasi del lavoro di ricerca presentato a Barba. Le partiture create dall’artista sono costruite su esigui motivi coreografici in dialogo con gli interventi percussivi di matrice elettronica creati da Baliani. I movimenti diventano progressivamente più articolati andando ad integrare nuovi elementi fisico-gestuali via via che beat e pattern sintetici divengono più complessi e compositi.
Determinante all’interno di questa relazione ‘corpo’ e ‘suono’ è anche il rapporto che questi elementi instaurano con la scena. Curato sempre da Baliani, qui in veste anche di light designer, lo spazio viene segmentato in quadrati di luce proiettati sulla superficie del palco. Questi quadrilateri cromatici appaiono, scompaiono e si riformano in diverse aree della scena. Parallelamente, all’interno della partitura acustica s’inserisce un mix di suoni rielaborati, rumori manipolati e ticchettii che disegnano un clima sempre più ossessivo, all’interno del quale Gleijeses-Samsa esegue movimenti coreografici improntati sull’alternanza di una tensione dentro e fuori dallo spazio ritratto dal proiettore luminoso. In risposta a questi stimoli visivi e sonori, la sua partitura da un lato diventa sempre più articolata e dall’altro risulta rispondente ad una logica di formalizzazione estrema. I gesti vengono ripetuti “in modo maniacale nello spazio, in infinite varianti e con una precisione al limite dell’ossessivo” (Morea, 2021).
‘Corpo’, ‘suono’ e spazio compongono ‘immagini’ drammaturgicamente dense composte da tensioni spettacolari all’interno delle quali trova spazio la voce off di Barba che puntualmente dà al performer indicazioni, consigli, lo invita a riprovare, a trovare nuove soluzioni, lo riprende. Stimolato e pungolato Gleijeses-Samsa “ripete, ripete e ripete e ancora e ancora, corre, salta, piroetta, cade, rotola, striscia, s’erge, si torce, si contorce”. È così, a questo punto, che lo spettatore comprende di trovarsi di fronte ad un personaggio che sta provando i movimenti di una coreografia con cui dovrà debuttare a breve: un “danzatore incapace di staccarsi dalla ripetizione ossessiva delle coreografie da portare in scena e che gli fa perdere la percezione dei confini tra teatro e vita, tra finzione e realtà” (Costantini, 2001). Perfettamente calibrata su un’inestricabile relazione drammaturgica tra ‘immagine’, ‘suono’ e ‘corpo’, l’‘azione’ che caratterizza Una giornata qualunque del danzatore Gregorio è completamente affidata alla tessitura di questo racconto in cui l’identità psicologica, nonché drammatica del protagonista – “convinto che attraverso una ripetizione ossessiva delle sue partiture sia possibile arrivare ad un altro livello di precisione tecnica e di qualità interpretativa” – si spacca, catapultandolo “in un limbo in cui si erodono i confini tra reale e immaginario, lavoro e spazio intimo, tra teatro e vita quotidiana” (Gleijeses, 2020). Un limbo costantemente scavalcato al di qua e al di là dei suoi labili confini, all’interno del quale non solo si palesa l’ossessione per la precisione tecnica, ma trovano spazio le voci off della figura paterna che lo chiama al telefono, quella della sua psicanalista e quella della sua compagna (cfr. Morea, 2021). Oltre ad assumere consistenza narrativa e spettacolare, questi slittamenti continui tra la dimensione reale e quella immaginaria, affidati agli interventi off, esprimono anche una qualità meta-riflessiva in quanto le presenze vocali che si ascoltano in scena sono riconducibili alla vita privata dell’attore: le voci appartengono, infatti, a suo padre Geppy, Julia Varley e Maria Alberta Navello, sua compagna di vita.
https://birdmenmagazine.com/2021/03/18/intervista-lorenzo-gleijeses/
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